Faina

 

 

            A prima vista sembrava un giovane timido ed introverso, pacato e sensibile, ma non appena sfoderava il suo ampio sorriso beffardo, nessuno poteva più dubitare che si trattasse di Faina.

            Che nome buffo Faina.

            Era un giovane alto, moro, dagli occhi celesti talvolta languidi e profondi, talaltra vispi e sornioni. I suoi abiti, spesso malconci, sembravano coprire un corpo gracile e snello dove, invece, c’erano muscoli sodi e potenti. Tutto il suo aspetto non era altro che un volgare travestimento, una messa in scena per trarre in inganno i più sprovveduti. Del resto era l’unico modo per sopravvivere a Rifugio, come ammetteva amaramente il vecchio Orwuak.

            Faina.

            Quasi tutti lo conoscevano con questo nome. Glielo avevano affibbiato quand’era ancora un ragazzo e ne combinava di tutti i colori. Mai appellativo risultò così appropriato: si addiceva al suo aspetto mutevole e ingannatore e al suo carattere provocatorio e imprevedibile. Solo pochi amici lo chiamavano ancora Heril, il suo vero nome. Lui stesso lo aveva quasi dimenticato. Si divertiva a sentirsi chiamare Faina, suonava bene.

Anche perché era un ladro, davvero uno dei più esperti. Del resto aveva avuto un maestro eccezionale: era il figliastro del mercante Furtwan Arraffamonete che lo aveva preparato con dignità e disciplina al ben difficile mestiere.

            Non c’era oggetto o cosa che non avesse provato a rubare. Si diceva in giro che Faina avesse aperto, in altre città, grossi empori con la merce sottratta agli abitanti di Rifugio e che fosse ricco più di quanto la gente fosse disposta a credere.

            Fatto sta che non erano molti quelli che si fidavano a combinare affari con lui, ma ciò non sembrava minimamente che lo riguardasse. Del resto era talmente abile che pochi si accorgevano di essere stati derubati…

            Il vecchio Orwuak gli consigliava sempre di trovarsi un lavoro più dignitoso, ma Faina era talmente fiero del suo talento che non se ne curava.

            Poi, invece, accettò un incarico al Tempio di Ils, era una specie di supervisore delle Cerimonie, dei Riti di Iniziazione e dei Sacrifici. Anche se all’inizio era come se fosse un gioco, con il passare del tempo aveva cominciato ad apprezzare lo stile e la serena risolutezza dei Sacerdoti.

            Viveva con la madre, Elaise, in una vecchia casa che si affacciava sul Largo della Seta, a due passi dal parco del Palazzo del Governatore. Di lì, svicolando per via delle Sette Lanterne, si arrivava al Viale dei Templi, affascinante come sempre per la sua aura tetra e misteriosa. In fondo al viale c’era il tempio più maestoso, il più grande, che i Rankiani avevano tentato invano di eguagliare per onorare i propri Dei Savankala, Sabellia e Vashanka: quello dedicato a Ils, Signore dei Signori.

            Quando Mon Gadaare, Sommo Sacerdote, non lo chiamava a sé, Faina trascorreva il suo tempo in giro per il bazar. Lo trovavi a chiacchierare con Salim l’Orbo, oppure ad ‘alleggerire’ qualche passante o un pellegrino ignaro della sua fama.

            Ogni tanto faceva una capatina al Rione dei Gioiellieri, dove ogni volta s’imbatteva ‘per caso’ in monili e pietre preziose. Del resto Rifugio era ben famosa per la continua circolazione delle merci.

            Passeggiando lungo il bazar si curava bene di evitare la zona del patrigno Furtwan Arraffamonete, sia per motivi di concorrenza, sia perché ultimamente i loro rapporti non si potevano certo dire ottimi.

            Si fermava spesso anche da Muriel, un mercante che vendeva vecchie pergamene e oggetti rari: per lo più cianfrusaglie senza alcun valore.

            “Vedi di tenere a posto le mani.”, disse Muriel.

            “Ti prometto che non toccherò nulla!”, rispose Faina con modi falsamente gentili.

            “Come se non ti conoscessi, basta girarsi un attimo e… zap! Scompare qualcosa.”

            “Sei prevenuto nei miei riguardi, Muriel. Non ricordi quante volte ti ho salvato dalla rovina? Quando quel Cerbero tentò di rifilarti un’autentica rarità, un monile che non valeva un misero Reale Aureo. E poi, quando cercasti di fregare quel tizio di Caronne: voleva farti arrestare dalle guardie Rankiane….”

            “Basta con queste sciocchezze, Faina. Dimmi cosa vuoi, oppure allontanati dal mio bancone.”

            Muriel prese alcuni libri ed un candelabro e li chiuse al sicuro in una cassa che aveva vicino. Soppesò in maniera particolare un vecchio volume per il quale un Rankiano gli aveva promesso una grossa cifra.

            “Ehi, ehi, non ti arrabbiare.”, riprese Faina. “Volevo soltanto fare quattro chiacchiere. Beh, a dire la verità cercavo qualcosa…”

            Muriel lo guardò con aria interessata.

            “Sarebbe a dire?”

            “Non avresti qualche thufir, oppure, che so, qualche vetro smerigliato, di quelli tipici di Ilsig?”

            “Certo! Dovrei averne ancora qualcuno.”

            Muriel si accasciò per cercare in una specie di sgabuzzino situato proprio sotto il bancone.

            “Ti posso assicurare che sono autentici thufir di Ilsig, soffiati e lavorati a mano.”

            Non appena tornò su, vide che Faina stava maneggiando qualcosa.

            “Per tutti i Maghi di Ilsig! Lascia stare!”, tuonò Muriel.

            “Oh, scusa.”, disse l’altro lasciando l’oggetto.

            Il mercante tirò fuori qualcosa.

            “Ti piace?”, chiese mostrando un thufir che puzzava di falso lontano un miglio.

            “Meraviglioso!”, esclamò Faina. “Quanto vuoi?”

            Il mercante ci pensò su per qualche secondo, poi disse:

            “Duemila Reali Aurei. E’ un prezzo veramente speciale che faccio soltanto agli amici.”

            Faina assunse un’espressione mortificata.

            “Oh, mi dispiace. Non ho con me così tanto denaro. Ripasserò domani!”

            “Fai come credi”, replicò Muriel un po’ seccato, “ma vedi di stare lontano con le mani dal mio bancone.”

            Faina si allontanò accennando un saluto. Svoltò l’angolo di Via delle Fornaci canticchiando un motivetto popolare. Tirò fuori qualcosa da una profonda tasca del suo abito, la esaminò con fare curioso e poi si diresse verso il Viale del Governatore, dove c’era l’ufficio di scrivano di Mastro Melinot.

            Era un ricco palazzo di diversi piani, dall’aria sinistra ed austera. Le finestre erano ampie e finemente decorate, ma ben pochi si fermavano ad ammirarle a causa del terribile fetore proveniente dal laboratorio delle rilegature. Mastro Melinot continuava ad accrescere la sua già discreta fama con continui traffici che spesso andavano oltre il campo librario e quello epistolare.

            Ultimamente gli affari procedevano bene, i clienti erano molti e danarosi, le spese modeste e facilmente sostenibili. Gli impiegati alle sue dipendenze erano più che triplicati negli ultimi cinque anni, permettendogli di aprire altri due laboratori ai capi estremi di Rifugio.

            Faina salì i primi gradini ed entrò nel grosso palazzo. All’interno c’era un grande fervore, oltre alla solita puzza che rendeva l’aria irrespirabile. Percorse interamente un lungo corridoio, bussando all’ultima porta. Aprì e si trovò di fronte una fanciulla non troppo alta, mora, dalla carnagione olivastra.

            “Ciao, Jarvina!”, disse sorridendo.

            Jarvina di Collebosco Dimenticato era l’assistente preferita di Mastro Melinot. Erano ormai diversi anni che lavorava per lui, facendo traduzioni ed occupandosi un po’ di tutto, specialmente quando il padrone si trovava nei guai. La sua lingua d’origine era lo yenizese, ma con la pratica era diventata esperta di diversi idiomi e dialetti.

            “Oh, guarda chi si vede. Heril!”

            Quasi più nessuno lo chiamava così. Si conoscevano ormai da parecchio tempo, da quando cioè Jarvina era entrata alle dipendenze di Melinot. Faina abitava qualche isolato più avanti e ogni tanto capitava per farsi leggere qualche lettera o per qualche traduzione.

            “Ho portato qualcosa per te!”

            Dalla tasca tirò fuori una spilla incastonata di smeraldi da cui si sprigionavano mille riflessi.

            “L’ho rubata questa mattina ad una nobile dama nel cortile del Palazzo del Governatore.”

            “Oh, Heril, sei sempre lo stesso!”, disse la ragazza fingendosi indignata. “Comunque è difficile rifiutare doni di simile bellezza!”

            Prese la spilla e la mise in un posto sicuro.

            “C’è qualcos’altro che vorrei farti vedere.”, aggiunse Faina.

            “Questa volta ho bisogno della tua abilità di traduttrice.”

            Tirò fuori uno strano libro, rilegato in pelle, che mandava un odore di muffa e di pagine ingiallite. La copertina riportava inciso il disegno di un castello con alte torri e circondato da due lunghi serpenti che si attorcigliavano.

            Jarvina prese in mano il libro con religioso timore e lo osservò attentamente maneggiandolo con cautela.

            “Dove lo hai preso?”

            “Apparteneva al mercante Muriel.”, sorrise Faina. “Deve essere prezioso, visto che lo teneva di gran conto insieme ad altri oggetti di valore. E’ scritto in una strana lingua che non si capisce.”

            “E’ Frev, un dialetto di cui si conoscono pochissimi testi scritti.”

            Jarvina cercò nella sua libreria qualcosa sul Frev e tentò di tradurre alcune frasi.

            Ci siamo, Heril! E’ un diario, il diario di Furlim…”

            “Furlim?”

            “Già, Furlim l’Intrepido. Per quanto ne sappia, credo che sia stato uno schiavo fuggito da Ilsig in seguito alla Grande Rivolta. Ne ho sentito parlare, ma non so niente di più.”

            In quel momento un impiegato di Melinot chiamò Jarvina ad alta voce, avvicinandosi.

            “Cosa vuoi, Raime?”, fece Jarvina.

            “Ci sono le guardie Rankiane! Hanno circondato il palazzo. Vogliono Faina…”

            “Dannazione! Non fateli entrare.”, esclamò la ragazza.

            “Ci sono altre uscite?”, chiese Heril.

            “Certo, ragazzo mio. Tutti sanno che Rifugio è piena di passaggi segreti. (Tranne le guardie Rankiane, per fortuna!) ”

            I due si avvicinarono ad una grossa vasca contenente un raffinato impasto di colore che serviva per decorare finemente le pagine dei libri. Era una tinta particolare, metallica tendente al rossiccio di cui Mastro Melinot era particolarmente fiero, vista la grande richiesta.

            Nella parte inferiore della vasca, che conteneva diversi quintali di materiale, c’era un grosso rubinetto. Jarvina ruotò la manopola, quando improvvisamente si aprì una botola che sembrava sprofondare nelle viscere della terra. Scese per prima, seguita da Faina che la guardava divertito.

            Il cunicolo in realtà penetrava fino ad una profondità di appena venti metri, poi si prolungava orizzontalmente sbucando in un vicolo di Labirinto, il quartiere malfamato della città.

            Percorsero al buio un tratto interminabile.

            “Vieni!”, disse infine Jarvina conducendolo fuori dal tunnel. “Siamo vicini a casa mia.”

            Abitava in Via dei Furfanti, vicino alla Taverna del Gatto Selvaggio. Esteriormente l’abitazione era sporca e malridotta, ma l’interno era ben curato e pulito. Da diversi anni progettava di cambiare casa e trasferirsi nel Rione della Musica, infatti aveva ormai ammucchiato un bel po’ di risparmi, sia con il suo lavoro di traduzione che con qualche affaruccio ai margini della legalità.

            Fece accomodare Faina offrendogli un po’ di krrf molto fresco.

            “Qui siamo al sicuro.”, disse Jarvina. “Le guardie Rankiane non si spingono mai dentro Labirinto: hanno troppa paura!”

            “Sì, ma non potremo rimanerci a lungo… Dobbiamo trovare un’altra soluzione.”

            “Credi che stiano cercando il Diario?”, chiese la ragazza.

            “Penso proprio di sì. Deve valere una fortuna!”

            Jarvina prese ancora in mano il libro.

            “Forse nasconde un grande segreto, ma non sappiamo quale…”

            “Dobbiamo scoprirlo.”, disse Faina.

            “Già, bisognerebbe chiedere aiuto a qualcuno. Qualcuno molto potente che conosce la storia dell’Intrepido Furlim…”

 

                                                                       (2)

 

            All’alba le vie di Rifugio erano semideserte. Due ombre silenziosamente percorrevano vicoli stretti e bui. Attraversarono il Poggio del Mulino percorrendo Via dei Pirati. Giunsero nei pressi di Villa Magnifica, una estesa proprietà circondata da alte mura che superavano per altezza persino quelle del Palazzo del Governatore. All’ingresso c’era un enorme cancello aperto e non si vedevano guardie a custodirlo.

            Jarvina e Heril ebbero qualche esitazione, poi l’attraversarono, entrando nell’immenso parco. Una fitta nebbia, che non era presente altrove, circondava la Villa perennemente. Nessuno aveva ma raccontato di aver visto altro che nebbia e non era certo che quella densa cortina nascondesse davvero qualcosa. Forse era la fantasia popolare, oppure vi erano degli strani poteri a mantenere le cose in quello stato. In ogni caso era noto che quella fosse la dimora di Lythande.

            E’ ben vero che il Mago trascorreva gran parte del suo tempo nella Casa di Afrodisia, oppure in uno dei suoi rifugi sparsi un po’ ovunque. L’abitazione che, però, si addiceva di più al suo temperamento e che oltretutto aveva plasmato secondo i suoi gusti e le sue esigenze era Villa Magnifica che nacque in una sola notte di un lontano inverno.

            Jarvina e Heril si tenevano per mano. Non erano certi che sarebbero mai usciti da quelle tenebre e avanzavano lentamente, cercando di calmare i nervi.

            All’improvviso si ritrovarono in un ampio salone con un caminetto acceso, vecchi mobili e un’atmosfera rilassata e romantica. Seduto accanto al fuoco, con le gambe incrociate e le braccia conserte, un volto sorridente stava fissandoli. Sulla sua fronte spiccava una luminosa stella blu.

            Lythande era piuttosto alto, snello, dai lineamenti regolari, quasi femminili, e lunghi capelli brizzolati che gli scendevano sulle spalle. Si alzò in piedi e andò loro incontro. Jarvina si inginocchiò al suo cospetto e Heril, colto alla sprovvista, la imitò.

            “Alzatevi.”, mormorò il Mago.

            Jarvina lo guardò fisso negli occhi con timore reverenziale.

            “Mio signore…”, riuscì appena a dire.

            “So già tutto!”, fece Lythande. “Del resto ormai non è più un segreto. Tutta Rifugio sa che vi siete impadroniti del diario di Furlim. Avete tra le mani il destino dell’intera città.”

            Faina osservava la figura del Mago che sembrava pervasa da un alone leggero.

            “E’ davvero così importante questo diario?”, chiese.

            “E’ importante che non cada nelle mani dei Rankiani. Lo avete con voi?”

            Faina lo consegnò al Mago che lo prese e lo appoggiò sul tappeto accanto al fuoco. La fiamma si fece ancora più viva e qualche scintilla sprizzò accanto ai due thufir posti ai lati del caminetto.

            Improvvisamente una luce intensa si sprigionò da quelle pagine, inondando la sala di raggi in ogni direzione. Il libro si alzò a mezz’aria come un astro nella volta del cielo, formando come un gigantesco schermo su cui si susseguivano sensazioni e colori.

            Il Mago alzò le braccia verso l’alto, sotto gli occhi allibiti di Heril e Jarvina e, mormorando frasi incomprensibili, fece comparire alcune immagini su quello schermo fumoso. Era il libro stesso che stava per raccontare la sua storia, doveva rivelare il proprio segreto.

            Videro gli antichi schiavi fuggire da Ilsig, mentre le truppe erano al valico per aiutare i Montanari nella difesa delle loro terre dall’allora giovane Impero Rankiano, che voleva allargare i propri confini. Videro le tumultuose razzie nelle campagne di Verhan: rematori delle galere, gladiatori e schiavi devastare paesi e saccheggiare templi. Quegli intrepidi scoprirono un nuovo valico sui monti ed entrarono per la prima volta nella verde valle che fu chiamata Rifugio.

            Oro e argento, gemme e pietre preziose consentirono loro di costruire il più grande tempio che si potesse mai concepire: il Tempio di Ils dai Mille Occhi. E all’interno di esso era gelosamente custodito il Sacro Lahh, che rappresentava l’essenza stessa di Rifugio.

            Ma con il passare del tempo il volto della città si trasformò. I continui traffici e le pressioni dell’Impero Rankiano contribuirono al progressivo sviluppo verso sud, dove fu costruito il Porto e allestita una flotta. Quello fu il periodo di massimo splendore: avventurieri, cercatori e tipi di ogni genere vi si trasferirono per fare fortuna. La sua posizione intermedia fra Ilsig e Ranke contribuì notevolmente al suo successo e al fiorire di floride attività commerciali. Il Porto fu ingrandito ulteriormente e la città diventò ricca oltre ogni misura.

            Poi accadde l’imprevisto. Ranke partì alla conquista di Rifugio, sottraendola all’influenza di Ilsig che l’aveva generata. Ci furono giorni di cruenta battaglia, date memorabili in cui il valore degli uomini non cessò di mostrarsi. Ma Ranke aveva un esercito meglio addestrato e nel giro di pochi mesi riuscì a rompere le difese avversarie.

            Soltanto pochi pescatori riuscirono a salvarsi dalla furia Rankiana. Questi pochi impavidi, guidati da Virel Furlim, riuscirono a portare in salvo il Sacro Lahh e si rifugiarono nell’Isola degli Avvoltoi. In pochi anni diventarono i pirati più temuti di questi mari, contrastando con ogni mezzo l’egemonia Rankiana.

            Le immagini cominciarono a diventare confuse. Erano come compenetrate da una leggera foschia. Videro il volto espressivo di Furlim che parlava del suo segreto. Videro il pirata invocare colui che avesse riportato il Sacro Lahh a Rifugio. Poi il suo viso si trasformò, assumendo le sembianze di Lythande e tutto il resto scomparve, mentre risuonavano le sinistre parole:

“Una della tre Porte….

UNA DELLA TRE PORTE…”

            Il Mago reclinò il capo in avanti, come se l’enorme sforzo avesse esaurito le sue energie e si sdraiò su di un sofà.

            Heril e Jarvina si guardarono attorno, come se avessero fatto un lungo sogno e videro che con loro c’era una quarta persona.

L’uomo aveva una lunga veste scura, fino ai piedi e una barba canuta che gli conferiva una certa aura di solennità.

            Heril si avvicinò a lui prostrandosi: aveva riconosciuto il suo maestro Mon Gadaare, Sommo Sacerdote del Tempio di Ils.

            Lythande si alzò in piedi e disse:

            “Il Sommo Gadaare mi ha pregato di lasciarvi parlare con lui. E’ in pericolo l’esistenza stessa di Rifugio.”

            Il Mago scomparve. Jarvina guardò Heril negli occhi.

            “Cosa potremmo fare, noi miseri mortali, che non possa lo stesso Lythande?”

            “C’è un limite anche ai poteri d’ogni Mago”, disse Gadaare, “e il Sacro Lahh non può essere toccato che da mani mortali!”

            Il vecchio fece qualche passo in avanti, mostrando sul volto scavato dalle rughe i segni della sua età e della sua saggezza.

            “I Rankiani vogliono quel diario per distruggere il Sacro Simbolo. Se ciò si verificasse sarebbe la fine del nostro popolo e il trionfo dei loro Dei. Finora abbiamo fatto di tutto per evitare la costruzione del tempio dedicato a Vashanka, ma non potremo andare avanti ancora per molto…”

            “Come possiamo impedirlo?”, chiese Jarvina.

            “Dovete trovare per primi il sacro Lahh… ma fate attenzione! I Rankiani sono vicini, hanno appena razziato il nostro Tempio credendo di trovarvi là.”

            “Le tre Porte…”, esclamò Jarvina.

            “Cosa?”, fece Heril.

                “Nella visione Furlim ha parlato di tre Porte, una delle tre porte…”

                “Già, ma dove”

            Gadaare a quel punto intervenne.

            “La leggenda dice che fu lo stesso Furlim a costruire il castello, il Grande Castello dell’Isola degli Avvoltoi, nascondendovi il Sacro Simbolo.”

            “E questo Castello… esiste davvero?”, chiese Faina.

            “Certo che esiste! E molti hanno cercato, ma non è mai stato trovato nulla.”

            “Furlim parla di tre Porte… Saranno le porte del Castello…”, fece Jarvina non troppo convinta.

            Mon Gadaare emise un profondo sospiro che lasciava intendere i propri dubbi e timori.

            “Dobbiamo farci aiutare da Lythande!”

            Non appena fu nominato, il Mago riapparve. Il suo viso gioviale espresse la sua buona volontà a riguardo, tuttavia sembrò turbato.

            “Le guardie Rankiane hanno circondato Villa Magnifica, ma non preoccupatevi, non troveranno nessuno…. Partiremo per un viaggio… un lungo viaggio…”

            Detto questo, quattro figure si volatilizzarono nell’aria come risucchiate dal tempo.

 

 

                                                                       (3)

 

            Ad oltre cinquanta miglia dalla costa, protetta da bassi fondali attraverso i quali soltanto le navi pirata sapevano districarsi, si estendeva l’Isola degli Avvoltoi.

            Pochi erano quelli che avevano avuto la fortuna, o la disavventura, di vedere come fosse fatta. Tutta la parte orientale aveva alte scogliere che scendevano a picco sul mare. Grosse caverne erano scavate dalle acque e diventavano il rifugio di prodi navigatori che vi nascondevano i propri tesori. All’interno, lungo la Piana di Hel Kazan, fioriva la bellissima Rijeka, capitale dei pirati, ultimo rifugio di coloro che volevano sfuggire a Ranke.

            Tra le colline del Sabon si trovavano le antiche costruzioni degli abitanti primevi dell’isola, pacifici e tranquilli, che non avevano mai opposto resistenza all’occupazione dei pescatori di Rifugio, ma che neppure erano riusciti ad amalgamarsi con loro.

            A sud-est delle colline c’era una vasta pianura, la Piana di Hel Marke, dominata dal Monte dei Sospiri sulla cui vetta si ergeva il Grande Castello di Furlim. Le sue torri si alzavano prepotentemente verso il cielo con un magico senso di sfida. Mille guglie, archi, torrette e postazioni si avvicendavano sulle alte mura, circondate da un profondo fossato.

            La natura tutt’attorno sembrava far parte di esso. Regnava una completa, totale tranquillità. Solo il volo di qualche violaceo avvoltoio rompeva la monotona armonia di quel paesaggio.

            In quel momento un’intensa luce si sprigionò dal piccolo spiazzo antistante l’ingresso principale. Come da un sogno apparvero quattro figure umane, guardandosi attorno con meraviglia. Lythande alzò la mano verso l’alto come per ordinare al Castello di rispondere ai suoi voleri. A quel gesto il ponte levatoio si abbassò delicatamente, permettendo loro di attraversare il profondo fossato. Disgustanti miasmi provenivano da quell’acqua putrida e giallastra.

            Heril e Jarvina, mano nella mano, seguirono il Mago ed il Sacerdote all’interno del Castello. Percorsero angusti cortili e lunghi portici e giunsero nel cuore della costruzione. Da un ampio cortile si accedeva ai piani superiori attraverso una lunga scalinata. Le condizioni all’interno erano disastrose: le sale erano state spogliate di ogni cosa, tutte le porte erano state fracassate e le stanze devastate e distrutte. Sul pavimento si vedevano le orme calcificate degli zoccoli dei cavalli.

Non c’era nulla che potesse far pensare a tre porte particolari.

            Faina si sporse dal balcone, gettando uno sguardo sulla Piana di Hel Marke.

            “E se ci fosse un incantesimo?”, fece.

            “Che vuoi dire?”, chiese Jarvina.

            “Beh, potrebbero aver fatto in modo che le tre Porte risultassero invisibili a chiunque.”

            Jarvina lo guardò come se avesse colto nel segno. Si recarono subito da Lythande.

            “Dov’è il Sommo Gadaare?”, chiese Heril non vedendolo più.

            “Ho dovuto riportarlo a Rifugio.”, fece il Mago. “I Rankiani hanno imprigionato gli altri Sacerdoti e c’è bisogno del suo aiuto.”

            “Devi fare qualcosa per noi.”, disse Jarvina. “E’ probabile che qualcuno abbia fatto un incantesimo sul Castello, occultando le Porte.”

            “Forse avete ragione…”, mormorò Lythande, “avverto una strana presenza…”

            Il Mago si avvicinò al balcone pronunciando frasi incomprensibili, come se si trattasse di una sorta di preghiera.

            Improvvisamente al centro del cortile principale, apparve una grossa costruzione. Era alta una decina di metri e sembrò emergere da terra come se fosse stata sepolta per secoli. Lythande era esausto. Il volto sempre sorridente era velato da una leggera patina che lasciava intravedere la sua spossatezza.

            “Purtroppo, ora devo andare…”, disse avvicinandosi a Heril e Jarvina. Si piegò e lasciò che gli baciassero, in segno di devozione, la mano inanellata di due luccicanti zaffiri. Poi il Mago scomparve, mormorando ancora qualcosa:

            “Quando avrete compiuto la vostra missione, il ritorno sarà immediato…”

            E così, i due giovani si ritrovarono soli in quell’immenso Castello, lontani mille miglia da Rifugio. Scesero nel cortile ammirando la nuova costruzione che era apparsa.

            Sul lato destro si trovava uno stretto cunicolo che sembrava essere l’unico accesso. La ragazza seguì Faina che coraggiosamente si era avventurato per primo. Più avanti lo spazio si allargava e c’era una scala a chiocciola che permetteva di scendere in basso.

            Dopo una lunga discesa che sembrava non avere mai termine, si trovarono in un atrio e, come per magia, si fermarono, incantati da ciò che avevano davanti.

            Tre immensi portali, alti più di tre metri e ricoperti d’oro, sembravano rinchiudere l’Inferno. Da essi si sprigionava tutta la potenza, la forza del Castello e dei suoi antichi abitanti, tornava alla luce il simbolo dell’antica pirateria che aveva regnato in quell’isola: le tre Porte.

            Senza neanche rendersene conto, Heril e Jarvina videro che erano circondati. Un intero campionario di armi da taglio li costringeva alla completa immobilità.

            “E così credevate di fregarci…”, fece il Cerbero.

            Faina stava ancora chiedendosi da dove fossero spuntate tutte quelle guardie Rankiane. Poi si ricordò del famigerato Mago della Corte di Ranke, la qual cosa chiariva ogni dubbio: con qualche sortilegio il Mago li aveva condotti sull’isola.

            Era ormai giunta l’ultima ora per tutti gli Dei di Rifugio.

Non appena i Rankiani si fossero impadroniti del Sacro Lahh, il dominio dell’Imperatore avrebbe avuto il suo massimo consolidamento.

            “Allora?”, fece il Cerbero. “Quale delle tre Porte è quella giusta?”

            Faina gli rise in faccia.

            “Come credi che possiamo saperlo?”

            Il Cerbero si arrabbiò scatenando la sua ira. Probabilmente la propria vita dipendeva dal successo di quella missione. In nessun altro caso era mai accaduto che i Cerberi scatenassero la loro violenza sul popolo sottomesso.

            “E’ inutile perdere tempo con questi pidocchi di Rifugio.”, disse rivolto ai suoi uomini. “Aprite quella di destra!”

            Le guardie portavano con sé arieti, leve e strumenti di vario genere. Faticarono non poco per scardinare la Porta, ma alla fine ebbero la meglio e l’ingresso fu libero.

            Il Cerbero, seguito da alcune guardie, avanzò lentamente, illuminandosi il passaggio con una fiaccola. Tutto ad un tratto si resero conto di essere circondati da una presenza misteriosa. La vista che, a mano a mano, prendeva confidenza con l’oscurità mostrò loro i veri padroni di quelle segrete: scheletri! Ce n’erano dappertutto: scheletri mutilati, scheletri di impiccati che pendevano dal soffitto, scheletri incatenati alle pareti….

            L’impatto emotivo fu tremendo. Le guardie fuggirono come in presenza del demonio, mentre il Cerbero tentava di calmarle.

            Una volta all’esterno ripresero la calma e l’impazienza di sempre, cominciando quasi subito a scardinare la seconda Porta.

            Jarvina e Heril erano stati legati e messi in un angolo, bene in vista, in modo da poter controllare in ogni momento le loro eventuali mosse. Il Cerbero incitava le guardie a proseguire più celermente.

            “Forza con quelle leve! Tirate più forte!”

            In quel momento apparve il Mago di Ranke.

            “Sei arrivato in ritardo”, fece il Cerbero, “il lavoro è quasi fatto.”

            “Non è colpa mia”, ribatté il Mago, “a Rifugio è scoppiata una rivolta e c’è il caos più completo. L’Imperatore stesso, da Ranke, ha ordinato la distruzione dei templi di Ils e di Hra.”

            Il Mago si avvicinò alla seconda Porta e la aprì col semplice gesto della sua mano. La delusione fu, però totale: c’erano soltanto vecchie case piene di cianfrusaglie e qualche barilotto di uhngen che era andato a male.

            Le ultime speranze furono rivolte alla terza Porta. Il Mago non impiegò più di mezzo secondo per aprirla, ma non appena l’ebbe fatto un’imponente massa d’acqua si riversò su di loro inondando l’atrio. Molte guardie, colte alla sprovvista, furono sommerse e sbattute con furia sulle pareti.

            Per fortuna, nel frattempo Faina era riuscito a liberarsi e a slegare Jarvina. Un attimo prima l’arrivo della acque, sgusciarono via e si nascosero in uno stretto riparo guardando con timore i nuovi eventi.

            Il Cerbero, visto l’insuccesso della missione, non si curò di loro e scomparve insieme al Mago e alle poche guardie scampate, lasciandoli soli in quel luogo sinistro.

            A poco a poco, le acque che avevano ricoperto tutto fino all’altezza di qualche metro, furono assorbite dal terreno, lasciando una melma viscida e giallastra insieme ad un odore fetido e puzzolente.

            I tre passaggi erano aperti, ormai, e potevano essere esplorati con più calma, ma non sembrava esserci nulla degno di attenzione, o che facesse pensare al Sacro Simbolo. Del resto non sapevano neppure cosa cercare.

            “Come pensi che siano morte tutte queste persone?”, chiese Heril a Jarvina quando entrarono nella sala piena di scheletri.

            “Non ne ho idea”, fece la ragazza, “mi viene però il sospetto che non siano morte qui dentro.”

            “E’ giusto quello che pensavo anch’io. Guarda! Quello laggiù, ad esempio, ha ancora una freccia conficcata nel torace….”

            “E guarda questo” notò Jarvina. “E’ stato ucciso con una daga.”

            “Che motivo c’era di ucciderli, sarebbero morti di sicuro rinchiusi qui dentro!”

            “Là! C’è un teschio privo del resto del corpo!”

            Quelle ossa che una volta erano umane, sembravano fissarli come in segno di sfida. Dalle orbite scure sembrò luccicare qualcosa. Heril lo fissò per un momento, poi si avvicinò. Era sicuro di essere giunto alla soluzione.

            Prese il teschio tra le mani e trovò che era pesante. Lo frantumò con una roccia che raccolse poco distante. Ne uscì un bagliore innaturale, quell’oggetto brillava di luce propria: avevano finalmente ritrovato il Sacro Lahh.

 

 

                                                                       (4)

 

            “Sai, mi stavo chiedendo qualcosa…”, disse Jarvina seduta ad un tavolo del Vulgar Unicorn.

            L’oste arrivò con due porzioni giganti di krrf freschissimo.

            “In onore dei due eroi di Rifugio, la signorina Jarvina di Collebosco Dimenticato ed il nostro amatissimo Faina!”

            I due piatti mandavano un odore invitante.

            “Che cosa dicevi?”, fece Heril.

            “Beh, mi stavo chiedendo… che cosa ci abbiamo guadagnato noi due in tutta questa storia. Naturalmente, a parte la notorietà e l’eterna gratitudine di tutta Rifugio…”

            “Ti dirò…”, disse Faina chinandosi su quella porzione.

            “Quando Lythande ha preteso che gli baciassimo la mano in segno di devozione ho pensato: cosa sono due miseri zaffiri in confronto alle sue sterminate ricchezze?”

            “Hai osato…”

            “Ho osato!”, fece Faina mostrando alla giovane le due pietre stupende. “Puoi considerarlo il segno del mio amore per te!”

            “Oh, Faina!”, esclamò soppesando i due gioielli. “Non cambierai mai!”