Ho sognato un vasto corteo, camminando lungo le strade di Parigi, una lunga fila di angeli ciascuno con una candela in mano. Chissà se tra loro c’è Anne?
Vagavo in preda a questi pensieri lungo il viale degli Champs Elysees dirigendomi verso il cuore della città. Come era potuto succedere? Non riuscivo a capacitarmi dell’idea che Anne non era più accanto a me.
Mi sentivo tradito e abbandonato e non riuscivo a trattenere le lacrime. Mi sovvenivano in mente gli attimi trascorsi insieme a lei, le nostre passeggiate a Montmartre, il suo volto sorridente…
No, dovevo smetterla con i ricordi, stavo facendomi del male.
Mancavano pochi giorni alle feste natalizie, ma, con tutta la mia buona volontà, non riuscivo ad entrare in quel clima di gioiosità che ogni piccola cosa emanava.
Mi resi conto che avevo camminato per un bel tratto; avevo quasi raggiunto Place de la Bastille, tra le pompose vetrine che facevano di tutto per attirare l’attenzione.
Mi fermai davanti ad un negozio di elettrodomestici. C’erano le solite radioline a cristalli liquidi. Mi chiesi come fossero fatte le radio prima della guerra. Mio nonno non me ne aveva mai parlato.
Mi raccontava sempre di un mondo perduto, di un vero Eden fatto di Angeli ordinati in un lungo corteo, che marciava orgogliosamente verso chissà quale meta…
Improvvisamente un faro lampex mi accecò ed un’auto frenò davanti a me. Non mi ero reso conto che stessi attraversando la strada. Per fortuna, dopo aver visto il lampex mi ero subito bloccato.
Un gruppo di persone si era fermato ad osservare la scena. Mi scrutavano con quei loro occhi severi.
Cercai di leggere sul loro collarino i commenti, ma erano troppo lontani.
Una signora si avvicinò gentilmente. Indossava un grazioso cappello viola che gli scendeva fin sul collo, lasciando scoperto soltanto il viso. Appena più sotto aveva applicato un collarino dello stesso colore, denotando il tipico gusto raffinato parigino.
Finalmente sul collarino si formarono le prime parole.
“Vi sentite bene, giovanotto?”
Sul mio collarino apparve la risposta.
“Sì, grazie”, dissi, “sono un po’ stordito, ma sto bene.”
La signora mi sorrise, poi si allontanò lungo le vetrine interminabili.
Ripresi a camminare sul marciapiede. Avevo la mente in subbuglio. Le idee, i ricordi minacciavano di farmi impazzire.
La gente aveva di nuovo quel sorriso che sembrava aver perduto. Le festività sembravano aver cancellato tutti quegli anni trascorsi al riparo nei rifugi antiradiazione.
Nessun danno alla città. Parigi era la metropoli che anche i nostri bisnonni avevano conosciuto.
Ma che cosa era successo alle persone?
Passai davanti a quello stupendo palazzo che era l’Opera. Mio nonno me ne aveva parlato a lungo! Ma non avevo mai realmente compreso le sue parole.
Avevo capito soltanto che molti anni prima non era un cinema.
Pensai ancora alla mia Anne.
La stessa guerra l’aveva risparmiata. Perché ora mi aveva abbandonato?
Passai davanti ad un negozio di dolciumi. Anne adorava i canditi. Ne compravo spesso una confezione e gliela portavo in regalo.
Il commerciante azionò il collarino:
“Desidera qualcosa, signore?”
Notai che non aveva un cappello. Era il primo essere umano che vedevo senza cappello. Risultava alquanto sgradevole.
“No, grazie”, lesse sul mio, “è troppo tardi ormai.”
Mi allontanai in preda all’angoscia, mentre il commerciante mi squadrava perplesso. Mi rendevo conto perfettamente che l’atmosfera natalizia, non faceva altro che acuire le mie sofferenze. Il mio volontario isolamento, minacciava di spezzarmi in due. Già, altre due volte avevo pensato al suicidio.
Ad un tratto vidi qualcuno camminare in mezzo alla strada. Ebbi un primo attimo di stupore, poi riconobbi gli zampognari.
Sembravano marciare, ma non erano certamente angeli. Con le mani tenevano grossi cartelli con le parole di una famosa canzone di Natale.
Indossavano uno strano costume ed uno strumento di cui non se ne conosceva l’uso.
“Che cos’è una canzone?”, chiedevo a mio nonno e lui cominciava a parlare di note e di sinfonie, ma era come spiegare ad un cieco le sfumature del rosa.
“Siamo un popolo di sordi!”, diceva “ci hanno tolto una dimensione che ci apparteneva.
Ci hanno mutilato. Ci hanno reso schiavi di questi dannati collarini che tolgono il respiro. Un mondo intero è morto, con la musica e i suoni. Un paradiso di eventi in continuo movimento, un eden di angeli che con orgoglio percorrevano la strada dei cieli. Abbiamo perso una parte di noi. Abbiamo perso l’udito.”
La guerra non aveva portato né vincitori né vinti, l’unico sconfitto era l’uomo. Nessuno avrebbe potuto prevedere un tale effetto delle radiazioni. Era già molto che eravamo riusciti a sopravvivere.
Riuscii a tornare in me. Ero esausto e avvilito, quando lessi l’insegna di una vetrina.
SI CERCANO VOLONTARI
PER ESPERIMENTI SULL’UDITO!
LAUTE RICOMPENSE
ED ASSISTENZA MEDICA!
Ne avevo già sentito parlare. In male.
Gli scienziati dicevano di essere in grado di trovare una soluzione. Che esisteva il modo di collegare i centri nervosi dell’udito ad un terminale esterno. In via teorica l’uomo era in grado di tornare nel mondo reale dei suoni. In via teorica…
Purtroppo, circa il novanta per cento dei pazienti che avevano accettato di collaborare erano entrati in coma irreversibile. Senza alcun apparente motivo, dicevano i medici.
Guardai all’interno dell’ambulatorio. I dottori chiacchieravano allegramente con gli infermieri. Non c’era neanche un paziente.
La loro espressione si fece strana quando mi videro entrare.
“Vorrei sottopormi all’esperimento”, dissi col collarino.
“Conosce quali sono i rischi?”, lessi dai loro.
Annuii.
Mi fecero accomodare. Dovetti firmare un mucchio di carte, ma ormai avevo preso la giusta decisione: volevo, almeno una volta nella vita, ascoltare, sentire, udire… tutto quello di cui parlava mio nonno. Volevo conoscere il “rumore” del cucchiaino in una tazza di latte il cigolio delle porte, il miagolare di un gatto.
Mi fecero sedere su una poltrona. Mi sembrava quasi di essere dal dentista.
C’era un grosso apparecchio alla mia destra, le cui luci lampeggiavano ritmicamente.
Mi tolsero delicatamente il cappello aderente, scoprendo i miei lobi atrofizzati. L’anestesia fu solo locale, così potei assistere ad ogni sequenza dell’operazione.
Incisero rapidamente asportando qualcosa, dopodiché infilarono due lunghi elettrodi ad ago nelle mie carni. Mi chiesi se veramente ero stato anestetizzato: il dolore fu lacerante.
Sul mio collarino apparvero alcune esclamazioni di sofferenza.
Poi, si rese necessaria una radioterapia. Caddi in un profondo sonno ristoratore.
Mi resi conto che non stavo dormendo. Aprii gli occhi e vidi la sala operatoria. Decisi allora di tenerli chiusi.
Non sapevo cosa stesse per succedere, ma ero eccitato e nervoso. Interpretai ogni evento sonoro come se l’avessi “visto”.
Dalle profondità degli spazi sopraggiunse una bianca colomba che si rivelò pian piano come una dea, signora della melodia e di tutti gli inni.
Negli inferi sonori regnava un basso tumultuoso e prepotente che ritmicamente cercava di emergere dai sottofondi.
La colomba tentava il volo cercando di non essere sopraffatta da quegli attacchi cupi e travolgenti. La aiutavano le ninfe dell’armonia con tinte medie di arrangiamenti barocchi.
Ma il basso sembrava sconfiggere il candore, quando all’improvviso restai folgorato: una lunghissima schiera di angeli in marcia emerse dal nulla in aiuto della colomba, relegando gli altri strumenti a suonare semplici note di accompagnamento.
Ecco, avevo visto gli angeli di cui parlava mio nonno. Erano così belli! Cantavano una melodia che era la vera chiave dell’Eden e mi gettai a capofitto in quei flutti sonori…
(2)
L’infermiera[1] osservò il monitor dell’elettrocardiogramma.
“Il ritmo è impazzito”, mostrò il suo collarino.
“Lo stiamo perdendo!”
I medici tentarono il tutto per tutto, ma in pochi secondi non ci fu più nulla da fare.
Si lanciarono rapidi sguardi di sconforto.
La reazione dei pazienti ad ogni evento sonoro risultava palesemente distruttiva.
Che cos’era a distruggere la mente del paziente?
I medici non riuscivano a trovare una risposta. Riposizionarono la macchina in attesa di un nuovo volontario. Tolsero il disco laser dall’apparecchio. C’erano le ultime registrazioni che il paziente aveva ascoltato.
Sull’etichetta si leggeva:
BEETHOVEN
SINFONIA NUMERO NOVE
CORALE.
Forse non era lecito usare proprio quei brani.
Forse quella Sinfonia così bella, così perfetta, era la causa inconsapevole di tutte quelle persone che non riuscivano più a svegliarsi; forse esse rimanevano traumatizzate nel passaggio dal silenzio assoluto al paradiso dei suoni; può anche darsi che tra i meandri di quei paesaggi sonori, esse avessero veramente trovato l’Eden.
[1] Liberamente tratto dalla relazione relativa alla morte di J. Brudèr a cura del C.S.S. Centro Studi Sonori di Parigi